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Immagine del redattoreMarco O. Avvisati

TONO SU TONO: LE FORME INVISIBILI DELL'ARTE. IL BIANCO



il Bianco, divide con il Nero una singolare ed ingiusta sorte: essere definito un non-colore. Ma anche l’insieme di tutti i colori possibili. Bianco per schiarire, bianco per lumeggiare, bianco per tracciare sul nero, e viceversa. Ma teniamoci per comodità sul bianco.

Cosa trasmette questa immagine? Erbetta verde, tenera e morbida, pulita, ma chi la crea questa sensazione se non il bianco in cui è immersa? Se fosse contestualizzata in un panorama, essa perderebbe di significato e di protagonismo.

E bianco su bianco? Che senso ha fare qualcosa che abbia lo stesso colore di ciò che ha intorno? Come potrà delinearsi una forma o una figura se si confonde con lo sfondo?

“Il bianco ci colpisce come un grande silenzio che ci sembra assoluto”, ci spiega allora Kandinsky. Ecco, il bianco come assenza di suono. Come luogo della purezza, luogo del niente o luogo dell’invisibile…


“L’uomo non si volta neppure. Continua a fissare il mare. Silenzio. Di tanto in tanto intinge il pennello in una tazza di rame e abbozza sulla tela pochi tratti leggeri. Le setole del pennello lasciano dietro di sé l’ombra di una pallidissima oscurità che il vento immediatamente asciuga riportando a galla il bianco di prima. Acqua. Nella tazza di rame c’è solo acqua. E sulla tela, niente. Niente che si possa vedere […] «acqua di mare, quest’uomo dipinge il mare con il mare» – ed è un pensiero che dà i brividi”.

E questo è Plasson, il pittore di Oceano Mare di cui narra Baricco.


Il bianco, dunque, può raccontare storie di silenzi, di nascondimenti, di sottrazioni progressive fino alla soglia del nulla. Ed è proprio con un esercizio di estrema astrazione che è cominciato tutto quanto.

Correva l’anno 1918 quando Kazimir Malevic, pittore russo fondatore del Suprematismo, realizzò una tela impensabile. Un quadrato bianco su fondo bianco. Solo un’impercettibile linea di contorno delinea il perimetro di un’area quadrangolare, leggermente ruotata.


È come se avesse voluto delimitare un luogo mentale, astratto perché quadrato, un non-oggetto, ma non per questo meno possibile. E la differenza, leggera ma decisiva, tra le due tonalità di bianco sancisce l’esistenza di quel luogo protetto. Quasi invisibile. Quasi.

Perché si fa presto a dire bianco… Chiamiamo bianco, con estrema leggerezza, tutto ciò che appare come il punto più chiaro del campo visivo. Ma raramente due bianchi coincidono…


Guardate quante gradazioni di colore siamo capaci di definire bianco!

bianco-sfumature

Dopo Malevic bisognerà aspettare altri trent’anni per rivedere il bianco così protagonista. Tra le sue astrazioni e quelle del secondo dopoguerra si trovano solo gli esperimenti in rilievo di Ben Nicholson degli anni Trenta. Qui il gioco dei bianchi si basa su leggere forme geometriche rivelate dai diversi livelli di questo ‘stiacciato’ contemporaneo.


Tanti pittori, dagli anni Cinquanta in poi, dipingeranno le loro tele di un bianco perfetto e uniforme. Il quadro, così, appare vuoto, come se non fosse stato mai toccato. Come il foglio candido che blocca lo scrittore. Come se l’artista avesse predisposto un divenire. E il quadro possiamo immaginarlo noi continuando a cercare nel bianco la traccia di qualcosa.

Sono così i pannelli di Robert Rauschenberg, ad esempio.


Al fascino quasi mistico del bianco su bianco gli artisti non resistono. Tele sorprendentemente simili si ritrovano tra i maggiori esponenti dell’arte concettuale, spazialista, pop, povera e minimalista.

Piero Manzoni (sì, quello delle scatolette di merda d’artista…) ha increspato con tessuti e gesso la superficie bianca dei suoi Achrome (opere prodotte tra il 1957 e il 1963). L’effetto è quello di un letto sfatto o di un’elegante plissettatura orizzontale. L’invisibile assume spessore e materia.


Molto più regolari sono invece le texture create da Enrico Castellani attraverso composizioni di chiodi che tendono dal retro la tela. Solo la direzione radente della luce può rivelare la trama nascosta attraverso il chiaroscuro.

Nel caso di Alberto Burri il bianco si frammenta e le ombre delle fenditure disegnano in maniera netta l’immagine di un terreno inaridito.


Questa apparente regolarità diventa precisione millimetrica nei tagli che Lucio Fontana opera sulle sue tele. Molte sono bianche. Ma non è il bianco originale del supporto. Sono state comunque dipinte.

La superficie così, irrigidita dalla pittura, reagisce alla fenditura in modo più netto. Il taglio si apre solo di poco, quanto basta per cambiare il corso della storia dell’arte…


Quello di Jasper Johns, invece, è un lavoro di tono-su-tono. Le sue serie numeriche, i suoi alfabeti o la bandiera USA diventano degli esercizi di sfumature e spessori pittorici. Appena leggibili. Come mappe del tesoro scritte con l’inchiostro simpatico…


C’è ancora meno sulle tele di Robert Ryman. Disuniformità, strisce appena accennate, spatolate leggere. Opere all’insegna del motto “Less is more“: il meno è il più, tradotto brutalmente. Uno slogan coniato, forse, da Ludwig Mies van der Rohe, architetto razionalista tedesco che depurò le sue costruzioni da qualsiasi elemento ‘superfluo’ alla ricerca di spazi essenziali.


Sempre van der Rohe amava dire “Dio è nei dettagli“. Quasi che in un insieme spoglio, svuotato di ogni decorazione, la bellezza risieda nella perfezione di un angolo, nell’incastro esatto di un giunto, nella raffinatezza della grana di un materiale.

Cose che si ritrovano nei bianchi di Cy Twombly. Graffiati come vecchi muri, quadrettati, disuniformi o divisi in pannelli geometrici.


Una consistenza scultorea hanno, invece, i bianchi di Louise Nevelson: assemblaggi dei materiali più disparati, ricoperti da una densa mano di bianco, in cui solo i contorni rivelano la natura degli objet trouvé.


Nei lavori più recenti di Daniel Arsham l’idea del bianco in rilievo assume la connotazione dell’installazione integrandosi con il muro retrostante. La parete diventa tela e l’intonaco prende vita assumendo forma e consistenza.


Il bianco come crema densa che si rapprende sulla tela è il segno distintivo dei lavori di Anthony Pearson. Sembrano colate laviche, canyon al rovescio. Qualcosa di tellurico e al contempo astratto.


Ancora più estremi e vuoti sono gli esperimenti che combinano il tondo (forma pura per eccellenza) con il bianco. L’effetto è l’opposto di un buco nero: un coperchio candido, uno specchio opaco.


È straordinaria la ricchezza del nulla rappresentato dal bianco. Perché dietro quel nulla non c’è il niente, c’è solo qualcosa che è invisibile. Che ci attrae e ci inquieta.

Come il bianco di Moby Dick, spaventoso forse perché richiama le dimensioni disumane della via Lattea.. “O è forse perché, nella sua essenza, il bianco non è tanto un colore quanto l’assenza visibile del colore e, al tempo stesso, la fusione di tutti i colori; è forse per questi motivi che c’è una così muta vacuità, piena di significato, in un vasto paesaggio nevoso – un incolore onnicolore d’ateismo dal quale rifuggiamo?”.



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