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COME CAMBIA LA "NOTIFICA" NELL'ARTE: LA LEGGE CHE FACILITA LA VENDITA DI MORANDI E DE


Il Ddl Concorrenza, da poco approvato in Senato dopo 804 giorni (sic!) di maturazione, contiene una serie di articoli che hanno fatto molto discutere conservatori e progressisti della cultura. Ciò che ha fatto discutere è, in sostanza, una revisione di quel corpus regolamentare e legislativo sul quale è basato l’istituto della “notifica”.

Con il termine “notifica” viene solitamente indicato un meccanismo, introdotto dalla Legge Bottai del 1939, con il quale lo stato riconosce ad un bene mobile o immobile un particolare interesse culturale. Detta così, verrebbe da chiedersi: come mai il riconoscimento di valore culturale da parte dello Stato crea così tanto scalpore? La risposta è semplice, ed è di natura giuridica: riconoscendo tale interesse, lo Stato indica che il bene “notificato” venga sottoposto alle norme contenute all’interno del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio, e che quindi, in soldoni, non possa circolare “liberamente” se non a certe condizioni.

Qualunque sia il proprio pensiero in merito, è fuori di dubbio che tale istituto meritasse una revisione. La Legge Bottai è stata emanata in condizioni culturali, sociali, politiche ed economiche profondamente differenti da quelle odierne e le leggi, si sa, sono fatte per rispondere alle esigenze del proprio tempo.

La modifica apportata in realtà cambia poco: riduce di venti anni il potere dello Stato sulla Storia dell’Arte. Vale a dire: se il decreto dovesse essere approvato senza variazioni, potranno essere notificate le opere di autore non più vivente realizzate fino al 1947 e non, come è l’attuale condizione, fino al 1967.

Poco dal punto di vista storico, ma non di certo dal punto di vista artistico: in quei vent’anni sono state prodotte molte opere di valore nel nostro Paese che collezionisti di tutto il mondo si contendono e per le quali sono disposti ad investire somme superiori a quelle che raggiungibili se l’opera fosse notificata.

Perché la “notifica” è vista, per un collezionista, come una vera e propria sciagura: sapere che l’opera non potrà lasciare i confini nazionali riduce notevolmente le quotazioni, sia perché il mercato (ufficiale) dell’arte in Italia vale ben poco rispetto a quello internazionale, sia perché escludendone la possibilità di espatrio il numero di potenziali interessati si riduce notevolmente.

Ma, a ben vedere, non è questo il punto. Perché nel mercato, come nella vita, quello che pesa di più è l’incertezza. E l’incertezza, nella legge della notifica, era ed è dettata dal regolamento che ne disciplina l’attuazione concreta.

Una ricerca condotta dal Monte Paschi di Siena nel 2012 che ha rivelato i risultati di interviste condotte a studiosi, collezionisti, operatori d’asta e galleristi ha rivelato in modo cristallino la percezione che gli operatori del settore avessero dell’istituto: il 72% degli intervistati riteneva la notifica un istituto opportuno sebbene per la maggioranza di essi (97%) fungesse da deterrente nel prestare ed esporre le opere, favorisse il mercato nero (88,6%). Quindi, nonostante delle “controindicazioni” importanti, la notifica restava per gli intervistati un istituto importante, a dimostrazione che chi si oppone a tale istituto non lo fa esclusivamente per interesse personale. Da quest’indagine emergeva però un altro dato importante: per l’88,1% degli intervistati, la notifica non seguiva criteri di valutazione oggettivi.

Questo è grave. Molto. Pensate come sarebbe il mondo se i produttori di telefoni cellulari (o di tecnologie biofarmaceutiche) non sapessero se il prodotto che stanno realizzando potrà passare o meno la dogana ed essere venduto all’estero. Incredibile, vero?

Un’incertezza del genere paralizzerebbe il mercato.

E’ per questo che la vera sfida del decreto concorrenza sta proprio in quel regolamento che il ministro Franceschini dovrà siglare per individuare i meccanismi di attuazione concreta dell’istituto.

È un problema di natura organizzativo: si tratta, banalmente di risorse umane, procedure e tecnologia. Un buon regolamento potrebbe essere quello di prevedere l’istituzione di un database che contenga informazioni dettagliate circa la maggioranza delle opere d’arte in circolazione, così che le informazioni possano essere disponibili sia dal personale che dovrà concedere o meno la libera circolazione del bene, sia da parte del possessore di tale bene.

Sarebbe interessante, legale ed equo: dopo un paio d’anni di proteste tutti si adatterebbero a guardare se l’opera di cui sono in possesso può effettivamente essere venduta all’estero o meno, così come tutti ormai togliamo la cintura (anche se ci secca) quando dobbiamo passare i varchi di sicurezza all’aeroporto.

Giusto, sbagliato? Il dibattito è aperto. Il problema non è questo. Il problema è che lo Stato dichiara l’interesse culturale in modo giudicato poco oggettivo, e poi però non offre soluzioni alternative. A chi crede che le leggi non vadano cambiate ricordo che, di fatto, quelli sono dogmi. E a chi sostiene che il Patrimonio Culturale è più importante del becero interesse di qualche gallerista che vuole lucrare sulla bellezza della nostra Storia dell’Arte ricordo che il Castello Sammezzano è rimasto per decenni in uno stato di completo abbandono.

Un argomento come questo non poteva non dividere le opinioni già diverse di frequente nel nostro paese tra pro e contro; da una parte ad esempio Philippe Daverio, 67 anni, critico d’arte, non ha dubbi: «Se gli Impressionisti non fossero stati venduti nel mondo sarebbero una corrente marginale dell’800 francese. Più se ne limita la circolazione, più l’arte è penalizzata». Permettere a un Fontana di uscire liberamente dai confini impoverisce gli italiani? «Le rispondo con una domanda: meglio che un quadro di Fontana stia nello studio di un notaio di Brescia o in un museo del Giappone?». E se finisse nello studio di un notaio di Tokyo? «Bene, lo vedranno 200 giapponesi e scopriranno l’arte italiana». Nella liberalizzazione totale l’Italia ha più da vendere che da comprare. O no? «Non vedo il problema, gli italiani non hanno mai smesso di essere collezionisti. Saremo venditori ma anche compratori. Il problema è un altro». Quale? «I musei che non comprano. Il risultato è che non abbiamo grandi musei di arte contemporanea».

Il critico d’arte Vittorio Sgarbi ha invece firmato la petizione contro la liberalizzazione del mercato delle opere d’arte compiute tra il ‘47 e il ‘67. «Beh, in quel periodo sono state prodotte anche cose molto brutte. Se escono dall’Italia non ci perde nessuno. Certo, anche un Morandi potrebbe prendere il volo...». Dunque? «Guardi, io contesto l’idea del limite dei 13.500 euro per definire quali opere possono uscire. Un’opera può avere una valutazione bassa ed essere molto importante per un Paese». Quindi le cose dovrebbero restare come sono? «In realtà anche la normativa attuale non mi convince». Perché? «In un’Europa senza dogane è già aggirata liberamente». Cosa servirebbe? «Tutte le opere dovrebbero avere un libretto come i motorini. Quando vengono vendute, lo Stato dovrebbe sempre averne una tracciabilità. Sapere dove vanno a finire ed eventualmente esercitare un diritto di prelazione».

Le due posizioni in fondo non sono poi cosi distanti e possono eventualmente conpenetrarsi tra loro, e questa è la nostra opinione.


Marco O. Avvisati

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